“You can learn from the duck, now”



Circa un mese fa se n’è andato Steve Lacy, musicista jazz. Ma non solo. Lacy definiva la sua professione una combinazione tra “orator, singer, dancer, diplomat, dialectician, mathematician, athlete, entertainer, educator, student, comedian, artist, seducer”.

Suonava il sassofono soprano, quello lungo che ai profani sembra un clarinetto dorato, il più infido e lunatico degli strumenti ad ancia. Lacy lo suonò dagli anni ’50 in poi prima con Cecyl Taylor, poi con Monk, con Gil Evans e parecchio da solo.
In un certo senso, Lacy prese in consegna il soprano da Sidney Bechet e lo passò a Coltrane. Dopo la morte di Trane lo riprese (rovente) e lo usò per dipingere nuovi mondi.

C’è una persona nella mia città che ha conosciuto e studiato a lungo l’arte di Steve Lacy, come musicista e non solo. Il ricordo che ci ha mandato non è breve, né date le premesse poteva esserlo.
Non è un testo per soli iniziati, nulla di troppo tecnico, lo dico per i lettori abituali di BURP!: prendetelo come un racconto sull’arte e l’amore per essa, perché in fin dei conti è proprio quello che è. (I grassetti sono miei e sono solo per guidare meglio la lettura.)

Per chi invece non è un lettore abituale di BURP! (e capita qui grazie alle mail che ho spedito), aggiungo che il link commenti in fondo al testo apre una finestra destinata ad accogliere per l’appunto il commento di chi volesse dire la sua o semplicemente salutare.

L’autore delle prossime righe si chiama Gianni Mimmo, questo è il suo lavoro e sarà felice di leggere i vostri commenti qui sotto, o di riceverne direttamente alla sua mail amiraniwr@libero.it
Per intanto, da parte mia, grazie Gianni.


Let him go
Io comincio dall’abbigliamento. Davvero fu la prima cosa che mi colpì di lui. Era una sera di giugno del 1973 e stavamo in un’aula dell’università di Pavia. Avevo solo letto qualche articolo sulla sua musica, non avevo avuto occasione di ascoltare alcunché.
Free-jazz era la parola, la definizione che voleva configurare questo approccio stilistico al fare musica. Tenevo in mente nomi come Ornette Coleman, Cecil Taylor, Eric Dolphy, Archie Shepp, Albert Ayler, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Don Cherry, John Coltrane, Rashed Ali.

Uscivo dai concerti con la netta sensazione di aver assistito a qualcosa di rituale, a cerimonie dense e caotiche, a spazi sonori molto compressi nei quali l’impatto emotivo risiedeva in una sorta di multicentrismo, di concomitanza espressiva. L’album di Ornette il cui titolo aveva dato il nome, il crisma artistico a quel movimento musicale, presentava un doppio quartetto che sovrapponeva le proprie linee, che godeva dei battimenti dissonanti, degli scontri timbrici. Entravo in un bosco intricato e vivo, con mille sentieri da poter seguire, segnali da poter fraintendere, soluzioni impensabili, semplici e gotiche insieme. Taylor, ad esempio, lavorava con imponenti masse sonore, imprimeva spostamenti assoluti, il pianoforte era una specie di fucina, un’officina del tuono. Si restava sopraffatti come dalla raffinatezza di Stravinsky, come dai timpani squassanti di un orchestra sinfonica nel pieno di un fortissimo. Archie Shepp lacerava Lush life di Billy Strayhorn come fosse la prima cosa da fare per dare il via alla rivoluzione. L’istanza politica ribellista e cosciente, afroamericana e anche un urlo spirituale che pareva cominciare ad abitare in modo definitivo la musica di Trane.

Tenevo dentro come un capitolo a parte, raffinato, quasi aristocratico, il suono marziano di Eric Dolphy. Consideravo, e ancora la penso così, che Dolphy avesse compreso qualcosa di inesprimibile e che potesse rivelare poco alla volta, con lampi di luce assoluta, una purezza più grande, un’originalità artistica elegantissima e davvero nuova.

Quella sera Steve Lacy vestiva una blusa sahariana color beige con tanto di cintura, pantaloni chiari larghi molto demodé a buon mercato e mocassini di cuoio intrecciato. Portava i capelli corti e notai che la sua fronte era smisuratamente alta. I suoi movimenti, mentre raggiungeva il piccolo palco denotavano una certa asimmetria degli arti inferiori.

L’impressione era un tantino anacronistica, avevo uno zio strano che vestiva così.

Un concerto di sax soprano.

Solo.

Io non lo dimenticherò mai.

Mi segnò e mi insegnò.

Negli anni a seguire riconobbi il germoglio dei semi che ebbi l’occasione di veder gettare in quella serata. Innanzi tutto un rapporto con il suono inteso come materia.

Lacy ci ha consegnato un suono unico, riconoscibile, riconducibile unicamente alla sua esperienza. La stessa autorità, la cifra dei grandi artisti. Miles, Trane, Dolphy, Klee, Callas, Piero Della Francesca, Paganini, Giacometti, Bach, Carmelo Bene, Cage, Glenn Gould. Dai primi, primissimi suoni, da appena accennati segni noi affidiamo loro il cuore, li riconosciamo come sentieri veri, il loro percorso ci chiama l’attenzione, la loro sincerità, persino il loro silenzio è gravido.

Dave Liebman racconta della grandezza di Miles, del potere che aveva pronunciando la nota armonicamente più “sbagliata”, di renderla inspiegabilmente vera, pura e nobile.

Appartenere alla musica, esserne tramite, esserne abitati più che abitarla.

Così, con facilità, Steve sembrava lavorare su questa materia con un’incredibile economia di mezzi.

Questa essenzialità lo portava a considerare i brani propri ed anche le sue celeberrime interpretazioni dei temi monkiani, come spazi da percorrere con maniacale attenzione ai frammenti.

Provate ad immaginare un oggetto a voi caro, a come lo accarezzate con lo sguardo, a come lo rigirate fra le mani, come lo ascoltate.

Era questo che faceva.

Il sax soprano è strumento ibrido, un poco costretto nella propria forma.

Una volta Lacy mi disse: “Forse, per qualche tempo, puoi governarlo, in alcuni casi puoi credere di averlo domato. Credi, non è così. La cosa più probabile è che la durata di una vita non basti. È fatto per smarrirsi. Credo che Adolphe Sax lo sapesse”.

Spesso, nella quasi totalità dei casi, il sax soprano è inteso come secondo strumento, un prolungamento del sax tenore, una scusa per spingersi nel registro più acuto. Trane percorse questa strada, Liebman lo fa tuttora per sua esplicita ammissione e anche Shorter usa il soprano in questo modo.

Non per Lacy che ne ha fatto una ragione.

Il soprano non suona bene, non è omogeneo, i suoi registri sono dislocati in zone improprie.

Affonda i suoi bassi nel cuore del sax tenore e suoi acuti negli squilli di una tromba.

Allora tutto il lavoro risiede nel trovare una identità coerente a quel tubo conico dritto.

Anche il fatto di trovarsi solo ad affrontare unicamente quello strumento ha giocato un ruolo determinante nella nascita del suo stile. Lacy considerava questo un vantaggio. S’innamorò di Sidney Bechet che trovava il soprano più facile di un clarinetto, che suonava il soprano come un clarinetto. Bechet ricorreva ad un vibrato molto evidente per compensare il proverbiale difetto di intonazione del soprano. Ora, ciò che continua stupirmi ancora oggi dopo centinaia di ascolti di Lacy è l’assenza quasi totale di vibrato. Questa pronuncia completa, questo attacco estremamente pulito, la straordinaria ricchezza armonica, l’articolazione raffinata e infantile insieme, l’amore per temi semplici che attraversano tutta l’estensione dello strumento con una eleganza formale di rara perfezione. Gil Evans comprese prima di tutti questa unicità. Gil scrisse i primi soli di sax soprano moderno per Lacy. Gil aveva uno straordinario talento per i colori orchestrali oltre ad una visione stilistica globale della musica. Se ascoltiamo l’album “Gil Evans & Ten”, questi elementi sono veramente evidenti. Gli accostamenti timbrici sono arditi, di straordinaria modernità. L’esposizione dei temi rivela un Lacy acerbo ma inesorabile. A quel tempo Lacy stava cercando in modo ossessivo di affermare il soprano come strumento pieno e maturo. Il soprano era considerato come una specie di curiosità. Anche se in misura molto minore, ancora oggi è cosi.

Steve Lacy considerò per tutta la vita Evans un proprio maestro, lo ripeté in moltissime occasioni.

A proposito di maestri, conosco una serie di aneddoti che Lacy mi raccontò personalmente.

Egli amava ripetere quella storia dell’ingaggio nel quartetto di Monk.

“Monk aveva uno strano modo di dirmi le cose. Io non ero mai rilassato, studiavo tutto il santo giorno e alla sera suonavo al club nel suo quartetto. Aveva questo vezzo di sussurrarti enigmatici suggerimenti nel mezzo del tuo assolo. Una sera si girò dal pianoforte e mi disse: “Lift the bandstand” (in italiano credo che suoni come: Fai lievitare il palco . N.d.R. ). Parlava poco e aveva come il potere di muovere l’energia. Soprattutto mi diceva cosa non dovevo fare, è stato molto duro lavorare con lui. Fu straordinariamente importante per me”.

Gil Evans lo portava a certi concerti di musica cameristica, lo spingeva all’ascolto di sonorità insolite. Alla fine di una seduta di registrazione del suo tentetto, Lacy provò una sorta di frustrazione per come aveva suonato. Il timbro non era maturo, il risultato non gli pareva buono e provava una certa fatica. Evans lo chiamò in disparte e gli chiese. “Che accidenti hai?” Lacy rispose che nonostante i ripetuti sforzi, il suono che cercava non veniva e cominciava a credere che quella non fosse la strada giusta. Evans lo guardò e poi chiese : “Are you lost?” Lacy ammise il proprio smarrimento. Meravigliosa fu l’espressione di Gil : “That’s exactly what I wanted from you, man”.

Lacy usava questi esempi nei suoi seminari per spiegare quanto importante è il senso del limite.

Un suo celebre esercizio si chiama “Tight corners” (angoli stretti) e consiste nel costruire melodie servendosi di pochissimi suoni, non più di quattro o cinque note, mentre l’armonia sotto cambia in continuazione. In alcuni casi tutto sembra filare liscio, ma poi le cose diventano difficili e servirsi di quei suoni non sembra possibile senza creare un qualche scompiglio.
“Devi avere il coraggio di suonare male, guardati mentre vai a pezzi, frequenta le tue incertezze”.

Gli feci notare quanto Zen ci fosse nelle sue parole.

Sorrideva e diceva che ci fu un periodo nel quale le pratiche estreme lo attraevano e lo temprarono.

C’è la celeberrima vicenda delle due note. Steve amava ripeterla.

“Questa l’avete già sentita di sicuro… Beh, ve la dico ugualmente… presi un intervallo minimo, una seconda minore, mezzo tono e lavorai a lungo, molto a lungo su quelle due note. Cominciai per qualche minuto e poi proseguii per una buona mezzora, quando passarono un paio d’ore credetti di impazzire, dopo qualche tempo vedevo cose e lo spazio sembrava cambiare. Quel piccolo intervallo era divenuto enorme, vasto. Quando tornai ad altri suoni il mondo era nuovo e senza misura.”

A questo punto citava George Braque: “Obsession! Impregnation! Hallucination!”

E poi faceva una piccola risata.

Avevo praticato per un periodo irragionevolmente lungo questi esercizi sugli armonici.

Lo avevo fatto in un bosco, lungo il fiume

Lo consideravo una disciplina, una specie di ginnastica mistica.

Dopo qualche tempo mi capitò la compagnia di un tale che se ne stava per tutto il tempo ad ascoltare, senza dire una parola, una decina di alberi più in là. Beh, la cosa aveva un che di inquietante perché quel tipo di esercizio non è il massimo dei divertimenti per chi lo fa, ma vi assicuro deve essere terribile per chi ascolta. Per questo avevo scelto un posto isolato. Il tale stava a una certa distanza e quando finivo, semplicemente se ne andava così come era venuto.

Nel 1998 feci uno stage con Lacy a Bologna, ero molto fiero del mio lavoro e glielo dissi.

Lui disse che il mio suono stava crescendo e che questo era un bene.

Risposi che probabilmente sbagliava, e gli raccontai di questo spettatore nel bosco.

Lacy rise di gusto e fece una dedica sulla mia copia del suo “Findings” che ancora conservo.

Io chiesi se aveva qualche suggerimento da darmi e lui disse:

“You can learn from the duck, now”.

Beh, è cosi che ho fatto e continuo a fare: imparo dalle anatre.

Non capii subito che Steve parlava dell’attacco di una nota sul soprano.

Ma davvero è così che faccio.

4 Comments on ““You can learn from the duck, now”

  1. Imparare dal papero. Queeek. Un’altra cosa da tenere a mente quando cerco di improvvisare.

  2. sono molto belli:

    1)l’atteggiamento mentale nel parlare di un musicista molto amato e stimato

    2)i ricordi di suggerimenti decisivi

    3)la saggezza della serenità del ricordo

    4)l’amore del paradosso

    personalmente non condivido alcune opinioni su musicisti nominati, anche se con credenziali autorevoli

    Claudio Fasoli

  3. Volevo ringraziare, a nome mio e di Gianni, tutti quelli che sono passati a leggere e in particolare Adrix e Claudio Fasoli che sono intervenuti direttamente a commentare. So che Gianni ha ricevuto molto più feedback di quello visibile qui e ne sono sinceramente felice.

    Aggiungo che siccome questo testo sparirà pian piano dalla prima pagina (è la legge del blog, i contenuti vecchi dietro quelli più recenti), non controllerò i commenti in questa finestra. Per cui se volete essere certi di essere letti e magari commentati a vostra volta, scrivete direttamente in mail a me o a Gianni stesso.
    Grazie

  4. Una fitta di acuta nostalgia per cose non vissute.
    Essere teneri di fronte alla morte è solo di alcuni… ma forse è la musica, di lacy, che “abita” solo persone un po’ speciali.
    Grazia

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