C’era una volta una gatta, di nome Tata

Era nata in una cantina abbandonata di via Cardano, in pieno centro città, tra polvere, ragnatele e cadaveri di topi morti grossi dieci volte lei.  Era la più piccola della cucciolata e per questo era stata scelta: prendiamo questa, altrimenti tempo domani è già schiattata.
Visse l’infanzia in un comodo e moderno appartamento zona Cravino, dove ebbe subito la prima sventura della sua lunga esistenza: in una caduta in casa, perse completamente l’udito. Un gatto sordo per certi versi è un gatto a metà, ma non si riesce a volerle bene a metà.
Fu battezzata pomposamente Morgana, ma dopo pochi mesi tutti la chiamavano semplicemente la Tata. Contrariamente alle previsioni non incontrò mai il Tato suo omologo presso i suoceri. Read More

50 sfumature mai lette, ma molto discusse

Premesso che non l’ho letto, ci ho preso gusto a leggere e scrivere e discettare di “50 sfumature di grigio”, il best seller che ha sdoganato un certo porno-sadomaso, ha fatto la fortuna di una mammina inglese e ha inaugurato un (sotto)genere di cui sentiremo parlare ancora a lungo.
Tutto iniziò per me con un paio di recensioni online scritta da persone del cui parere di lettrici mi fido (Giuliana e Linda): entrambre se ne facevano beffe e la seconda da par suo senza troppi giri di parole (not safe at work, ecco).
Poi non passava giorno senza che ne leggessi male in giro (qui Severgnini). Ma intanto se ne parlava dappertutto, anche in spiaggia e da Vanity apprendevo quali erano le scene imperdibili, quali i picchi hot del’intera trilogia. Eppure mi dicevo, non può essere davvero così mal scritto no? Insomma, quando per la prima volta ne ho letti dei passi (ovviamente quelli hot), qui sul Post, quasi non ci credevo. Era davvero così. Read More

“Filippo ha la bocca del Milan!”

È tutta colpa di Filippo. O merito di Filippo se ci siamo trovati a chiacchierare in famiglia di apparecchi ortodontici. 

Sì, perché Alice è tornata a casa e ha detto: “Filippo è fuori, ha la bocca del Milan!” E nel suo disappunto c’era per metà l’essere una piccola interista e per metà lo stupore per chi è tanto tifoso da mettersi in bocca una cosa con i colori sociali del suo club.

Il fatto è che Filippo, come altri, porta l’apparecchio ai denti. E siccome è tifoso, si è fatto fare un apparecchio in tinta con il suo cuore rossonero.

Io mi sono ricordato di un video a cartoni molto carino (lo trovate qui sotto) che avevo trovato tempo fa curiosando su Genitori Channel e ce lo siamo visti tutti insieme. E la piccola è andata a prendersi subito lo spazzolino per imitare i personaggi del video. Mentre la grande ha commentato che le pareva una buona idea lavarsi i denti per 3 minuti interi… a patto di trascorrerli ascoltando la propria canzone preferita, proprio come consigliato dal video. E così ora si organizzerà per portare una mini filodiffusione anche in bagno. Per lavarsi i denti con Elisa o Lady Gaga, ecco.

E poi in effetti sia io che la mamma l’apparecchio l’abbiamo portato, sebbene in età diverse e per motivi e con risultati diversi.
Per me non è stato difficile: lo mettevo solo di notte per correggere una masticazione inversa. Andavo dal dentista una volta a settimana, dopo musica, a farmelo “stringere”. Però non ricordo perché smisi di portarlo prima  di correggere la masticazione. A volte mi chiedo quante emicranie siano dovute a quel difetto lì.
Mia moglie invece, da ragazza, con un apparecchio fisso ha corretto il suo sorriso. Che non le rendeva giustizia e ora invece risplende. Alice per fortuna ha una dentatura perfetta (ma guardandola a volte mi chiedo se esista un apparecchio per i capelli, sì per per correggere la pettinatura). Viola è ancora ai denti da latte e per ora sembra tutto in ordine.
Intanto Filippo domani verrà interrogato. Sì, da Alice che ha si è ripromessa di chiedergli come si lava i denti. E che canzone usa. “Speriamo non l’inno del Milan”, ho detto.

E poi abbiamo deciso di partecipare al concorso di SunStarGum: che tu abbia o meno l’apparecchio, sorridi, scatti una foto e la mandi. E puoi vincere un weekend a Gardaland oppure un iPad.
Il fatto è questo: Alice punta al primo premio. Io al secondo. Ma faremo di tutto per vincere.

Di nuovo al Park Albatros, esplorando i dintorni…

Che il Park Albatros di S. Vincenzo (Livorno, poco più sopra di Piombino, insomma la Costa degli Etruschi) fosse un gran posto, noi l’avevamo scoperto già nello scorso agosto. Quindi quando gli amici di ECVacanze ci ha invitato al blogtour diciamo che non ci abbiamo pensato due volte: avevamo già le infradito ai piedi.
Stavolta eravamo in tre, perché la piccola ha pensato bene di prendere la varicella. Se ci ha sfiorato minimanente – dite – il pensiero di rinunciare al weekend per stare al suo capezzale? Francamente no. Ci incuriosiva vedere l’Albatros semivuoto, stavolta era fine maggio, dopo averlo visto in agosto, colmo di ordinatissimi ed educatissimi turisti biondissimi. Quando è pieno è un paese di oltre 5.000 persone e tutto funziona perfettamente, a parer mio per un paio di motivi: 1. è molto ben gestito 2. il 90% dei turisti è biondo, nordico e civile. Il che aiuta molto. Non riesco a immaginare, infatti, che il soggiorno nello stesso villaggio, popolato da 5.000 italiani, tipicamente famiglie con bambini 0-14 anni, possa essere così serenamente ordinato e riposante. Sono stronzo? Sono esterofilo? No, sono realista. Read More

Leggere in IV B (con la chitarra di Marty McFly)

Quando sono uscito da scuola mi sentivo Marty McFly.
In Ritorno al futuro, c’è questa scena. Marty ha appena finito di suonare la chitarra al ballo “Incanto sotto il mare”, quello dove si sono conosciuti i suoi genitori. E suonando nel 1955, lui, chitarrista del 1985, ha appena citato e (di)mostrato sonoramente tutta la storia del rock: da Hendrix, a Townshend, fino a Van Halen. Il pubblico di ragazzi ammutolisce e lo guarda come un marziano. Cosa che in effetti per certi versi lui è. Lui restituisce la chitarra al suo proprietario, il nero del gruppo pop anni ’50.  Che la riprende in mano e la guarda incredulo. Guarda Marty e guarda la sua chitarra: stupito, perplesso.

Perché vi racconto questo.
Perché l’altro giorno sono andato, come ogni anno, nella classe di Alice a leggere delle storie. Le occasioni precedenti le trovate qui e qui. Scegliendo di volta in volta Dahl, Pitzorno e Denti, io mi ero sempre difeso bene, intendiamoci. Quest’anno però ho fatto il botto, leggendo “Il mio mondo a testa in giù” di Bernard Friot. Si sono divertiti un sacco tutti, dai bambini alle maestre. Mi sono divertito un sacco io. Come e più delle altre volte. Mia figlia mi aveva pregato: “Papà non fare il pazzo”. Significa per favore contieniti, ricordati che sei un genitore, non un guitto e che io poi in quella classe ci devo passare un sacco di tempo e non voglio che mi prendano in giro perché mio padre fa le voci o salta sui banchi.
Così, mi sono limitato a leggere, fermo al centro dell’aula, solo qualche gesto con le mani. Ho lavorato solo di intonazione. Le storie di Bernard, quelle di questo libro in particolare, sono brevi, secche, spiazzanti e anche un po’ cattive. Come sono i bambini. Loro le hanno riconosciute subito. Hanno applaudito ogni finale. Io indicavo il libro e dicevo che era tutto merito suo. Alice poi a casa ha detto che è stato merito di tutte i due,  perché avevo letto bene. Per la precisione 70% l’autore e 30% il lettore.

La maestra Filomena (che è una brava maestra, intendiamoci) alla fine mi ha chiesto il libro e ha preso debitamente nota di titolo e autore. E lo teneva in mano così, stupita. Con l’espressione con cui il chitarrista nero guarda la propria chitarra, dopo i fuochi d’artificio di Marty McFly.

Marco, 1953-2002

Una mattina di dieci anni esatti mi ha chiamato Ernesto prestissimo al lavoro, per dirmi che Marco Pazzi se n’era andato.
Io Marco l’avevo conosciuto nel 1985 quando io ero un pischello e lui era già un trentenne con una Fender Stratocaster, dei figli e delle storie pese. Questa foto dovrebbe essere invece del 1974, di un suo viaggio in Marocco. Questa foto mi è sempre piaciuta un sacco. Ancora più dei suoi racconti di quel viaggio.
Non basterebbe un libro solo per raccontare quanto ci siamo divertiti suonando insieme, per una quindicina di anni. Né per dire quel che ho imparato e capito, della musica e non solo. Anche della Fender, dei figli e di tutto il resto. 

Il giorno del suo funerale sono andato a comprare una manciata di plettri colorati. E glieli ho portati.

Lettere d’amore (2): gli amori sui muri

È iniziato tutto così. Ho visto una scritta d’amore sul muro e ho provato a immaginarmi la storia – o un frammento – di quell’amore. Senza pensarci ho scattato con Instagram e ho provato a dargli un titolo intonato. Ho visto che l’esercizio mi piaceva, mi teneva la mente sveglia, l’occhio attento e il cuore caldo. E così ho iniziato la collezione di “Ammuri sui muri”. E sui muri ce n’è parecchio di amore: ci sono sentimenti sgrammaticati e strappalacrime, ci sono lampi di genio, ci sono dichiarazioni stralunate, ci sono desideri, calcoli, bilanci, progetti, minacce, odii e vendette. Ci sono amori in corso e amori rimpianti, amori negati e amori sintetizzati. Ci sono amori calcistici e anche amori tra esercenti.

E poi ci sono io, che sono quello che si ferma in mezzo al traffico per scattare una foto a un muro. Ci sono io che ormai appena esco dai mio tran tran e capito in un posto, una via o una città nuova, accendo mille antenne. Ci sono io, che cerco nuove strade e muri scritti d’amore. Scatto, immagino, titolo, condivido. E ormai anche mia figlia grande mi aiuta nella ricerca: “Papà, sotto lo scivolo ce ne sono due di scritte… ma in una c’è scritta quella parolaccia… effe di pi”.

Sì, lo sappiamo che scrivere sui muri non si fa, non si deve, già. E per l’appunto, ultimamente il mio disappunto è un altro: i tags dei giovani writers. Semplici sigle, firme del loro ego. Tante, troppe. O sono io che sono un (romantico) matusa e non ne capisco il senso? E allora chiudo con un’appello: ragazzi, lasciate stare l’ego, se proprio volete lasciare un segno, scriveteci l’amore, sui muri.

La gallery “Ammuri sui muri” la trovate su Flickr (ma guardatela a tutto schermo che sennò vi perdete i titoli) e su Pinterest.

Torino Jazz Festival: da andarci di corsa

A Torino mi ci hanno portato un paio di fidanzate ai tempi dell’università. Nessuna era di Torino ma studiavano lì. A volte pensi che gli amori pendolari sono i migliori, soprattutto se hanno per teatro una città intera da scoprire. Così quegli amori sono finiti da diversi lustri, ma l’amore per Torino mi è rimasto. Un amore che – come tutti gli amori che vogliono durare – si alimenta di una continua curiosità e – come tutti gli amori sofferti – di una certa distanza. Ci sono tornato in poche occasioni (Fiera Libro, i Police allo stadio) e non ho mai più respirato la città come allora.
Ci tornerei invece di corsa questo weekend, per scoprire il Torino Jazz Festival, da oggi al 1 maggio (anche su Twitter e Facebook). Ho guardato il sito e il programma e ce n’è per tutti: per tutti i generi, per tutti i gusti, per tutte le contaminazioni, per tutte le occasioni. Non solo concerti quindi ma performance, mostre, cinema con un’interessante deriva Fringe, la sezione di confine, ispirata alla tradizione off dei grandi festival.

Cosa sceglierei? Beh non mi perderei senz’altro Carla Bley alla guida del Turin Project, Bollani con il Danish Trio (guest Peppe Servillo), andrei a salutare gli 80 anni di Ahmad Jamal e poi Chiara Civello &Fabrizio Bosso, Dado Moroni. Conoscendomi, credete forse che potrei resistere a Stefano Benni che riporta in scena Thelonious Monk? E se poi volessi muovere un po’ la gambetta e sentirmi qualche lustro di meno andrei a ballare: no, non pensate a Dimitri From Paris. Io andrei a ballare lo swing di Ray Gelato, giovane sì, ma matusa forever.

Cosa farò da grande?

L’altra mattina durante il Pedibus, ero l’autista sapete, e chiacchieravo con Tommaso, che è un giovanotto di 5a elementare. Insomma gli avevo attaccato bottone col discorso del cosa vuoi fare da grande.
“L’archeologo.” Bello, Tommaso, pensa che io alla tua età volevo ancora fare il… soldato sì. Poi ho desiderato fare il veterinario, il calciatore, il cantautore triste (che faceva innamorare le donne più belle) e lo scrittore. E poi ho studiato da avvocato e non ho fatto nemmeno quello. “Però hai fatto il bagnino e il cameriere” è intervenuta mia figlia che ascoltava due passi più indietro. Read More

Il mercoledì è durissima

Il mercoledì è durissima, altro che il lunedì.
Il mercoledì mattina la sveglia suona solo 10 minuti prima. Ma le cose da fare sono mille in più.
Il mercoledì mattina preparo un tè e un caffè. Poi saluto la mia signora che esce di casa prima di tutti.
Il mercoledì mattina alle 7.20 vado a svegliare la prole. Read More