Coming out: le mutande del nonno

Mio nonno paterno si chiamava Igino con la I davanti, e quando si incazzava diceva porcomondo. Se n’è andato nel 1973 quindi ci siamo incrociati davvero per poco ma in qualche modo l’ho portato con me molto a lungo.
Il nonno Igino era altissimo, aveva un fucile da caccia, un carretto e un negozio a Belgioioso in cui vendeva sementi e biancheria intima.
Ora, nessuno sa esattamente il perché di questo strano accoppiamento merceologico. A me piace pensare che anche i suoi genitori fossero ambulanti come lui da giovane, uno di sementi e l’altro di maglieria, e che lui avesse ereditato entrambi i banchi al mercato e poi in età avanzata avesse riunito tutto il business in un’unica minuscola bottega. Che io ricordo perfettamente, freschissima e ombrosa d’estate. Con i sacchi bianchi delle sementi posate in terra e il bancone col vetro contenente le scatole di cartone beige e verdine con maglie, calze e mutande.
Quando il nonno morì, mio padre chiuse la bottega ovviamente. Regalò o vendette o smaltì chissà dove le sementi e portò a casa nostra a Pavia le scatole di biancheria.
Tutte.
La mia famiglia, composta di solo due adulti e due bambini, si trovò dunque attorno al 1973 in possesso di un quantitativo di maglie e mutande atto a soddisfare le esigenze di un reggimento dell’esercito. Ovviamente era un peccato gettarle. Erano tutti capi nuovi, non sarebbero certo andati a male, c’erano tutte le misure utili.
Ma poi figuratevi se io bambino mi interessavo delle mutande che indossavo. Erano quelle, punto. Ragno o Cagi, i tipici mutandoni fantozziani, rigorosamente bianchi, attillati, con i fianchi alti e l’asola centrale per estrarre prontamente il pistolino. Attraversai serenamente l’infanzia fino all’adolescenza, dunque, senza il minimo disagio.
Poi però arrivò la prima liceo.
Gli slip si erano già diffusi e insomma nello spogliatoio, tra le occhiate di disgusto e lo scherno bonario di tutti, eravamo rimasti solo io e Vincenzo a vestire i mutandoni.
Vincenzo però pesava 85 chili, veniva da un paesino, era figlio di contadini e non aveva palesemente alcuna esigenza di look.
Il giorno in cui in quello spogliatoio della palestra del Liceo Copernico, il più figo della classe 1a A, Massimiliano, si tolse i pantaloni (come Nick Kamen nello spot Levi’s) e rivelò un paio di inediti, inusitati, boxer tinta pastello a fiorellini, il tempo si fermò: tutti lo guardarono con ammirazione e si sentirono a disagio nei loro slippini monocromatici e strizzapalle.
Vincenzo non fece una piega ché in campagna il tema non era così sentito.
Io mi sentii a disagio al quadrato perché, mutandato come il campagnolo, ero già indietro di ben due tornate dell’evoluzione del costume dell’intimo. Speranzoso che presto, prima o poi insomma, anche l’altra metà del cielo mi avrebbe visto in intimo, capii che non potevo continuare a indossare le mutande acquistate dal mio avo circa 15 anni prima.
Andai a casa e chiesi con fermezza a mia mamma di acquistarmi delle mutande contemporanee.
In fondo, già da due anni, erano iniziati gli anni ’80.

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