Musica classica: Revolution, un’orchestra in jeans

Il fatto è che da quando in casa è entrato Crosta, il violino, si è portato dietro una ventata di curiosità e di entusiasmo per la musica classica. Considerato che io l’ho studiata dai 7 ai 12 anni, prima della deriva che mi ha portato a fare il pianista in un bordello, la morale è che non è mai troppo tardi per innamorarsi. Anche se sono due amori diversi. Trent’anni fa era la classica che cercava di farsi amare da me, adolescente distratto. Ora sono io che la inseguo ovunque posso. A ‘sto giro, il nostro è un amore platonico: ho un paio di spartiti sul piano, ma non mi azzardo a suonarla.

In questo periodo di ritrovate curiosità, dunque, mi invitano in giro ai concerti. E dopo un’Aida in Arena in prima fila mi sono infilato in un concerto curioso: Revolution, a Jeans Music Symphonic Show (per gli amici, da qui in poi “un’orchestra in jeans”).


Matthieu Mantanus è un giovane direttore (sembra un fanciullo ma ha iniziato bambino e quindi ha i suoi bravi km di palco sul groppone) che vuole svecchiare, depaludare, informalizzare il rito del concerto classico. Quindi lui e i musicisti suonano in jeans, per esempio. Attenzione, non è uno spettacolo sulla musica classica, non è una cosa dissacrante o umoristica, anzi. Nulla a che vedere con il genio di Les Luthiers o le acrobazie di Igudesman & Joo). È un vero concerto di musica sinfonica, che si propone però di abbattere barriere, avvicinare, coinvolgere, cambiando qualcosa nel rito. Abbigliamento informale per tutti, un direttore che presenta tutti i brani, raccontandone genesi e significato, una scenografica minimale e qualche luce colorata.
L’intento è lodevolissimo. Io stesso, da neofita, vado cercando libri o altri materiali (su Sky Arte o Classica ogni tanto sbavo) che mi prendano per mano e me la raccontino, che mi intortino: che mi diano il contesto, il significato, ma anche il retroscena, la curiosità. La parola chiave è divulgazione. Quindi per me l’esperimento della Jeans Simphony Orchestra è interessante e deve continuare e crescere. Il direttore parla un ottimo italiano, tiene bene il palco. Il successo del progetto si regge su un equilibrio sottile. Perché il manifesto annunciato del “non voglio insegnare, ma voglio trasmettere” rischia di entrare un poco in crisi, se le parole sono troppe o il tono diventa cattedratico. Ma per ora questo rischio non c’è, anzi io forse avrei voluto ancora più parole.

L’Orchestra era giovane e precisa. Non ho gli strumenti per valutarne in dettaglio la performance. Le persone accanto a me, ben più navigate in fatto di ascolti classici, mi suggerivano che sicuramente è un’orchestra che deve crescere molto in fatto di interpretazione. Va detto che si trattava di una “prima” e che, a tratti, la presenza di una numerosa claque ci ha fatto pensare a qualcosa di simile a un saggio di fine anno. E lo dico con il massimo rispetto e consapevolezza del rito del saggio di fine anno, a cui anche io come genitore partecipo entusiasta. Ma poi, parliamoci chiaro: ogni rivoluzione ha bisogno di una sua claque, di mettere radici, di tempo e occasioni per crescere.

Poi alla sera mentre raccontavo lo spettacolo a mia figlia, mi chiedevo se con pochi minimi adattamenti ai testi questo non fosse (anche) uno spettacolo da proporre per le scuole. Perché il seme della rivoluzione germoglia meglio se trova il terreno fertile di menti aperte, chissà.

Ma già che ci siamo, sentiamo che ne dice Tostoini, che stava lì seduta accanto a me. Le scrivo una email: “Roberta dato che sul tuo blog ci metti solo i disegnini, le parole mandamele qui che le pubblico io”. Ed ecco la risposta.

Il mio prudente ritorno all’ascolto della musica classica è cominciato quest’anno per colpa di un fidanzato e di un concerto di brani di Rachmaninov alla Scala. Il risultato è stata un’infatuazione vertiginosa per la musica classica suonata dal vivo e una serie di riflessioni su i luoghi e i modi in cui viene suonata la musica con cui annoio chiunque mi capiti a tiro.
Così, quando è arrivato l’invito per Revolution! ho accettato con entusiasmo e molta curiosità. Teoricamente sono nella situazione perfetta per uno spettacolo del genere: mi sto riavvicinando alla musica classica ma non la conosco abbastanza. Non potrò che apprezzare l’idea di portare quel tipo di musica a persone come me, che hanno fatto ascolti differenti ma hanno curiosità.
E invece. E invece sono uscita dal concerto con sensazioni molto contrastanti e un certo disappunto.
Ad iniziare dall’idea dei concerti in jeans. Non condivido il presupposto del giovane direttore: non credo che gli abiti da concerto allontanino dagli ascoltatori e che nnu ggins e ‘na maglietta (perdonate la colta citazione) li avvicinino. 
Io credo, piuttosto, che aiutino a creare una magia. Abbiamo bisogno – di quando in quando – dei simboli per entrare nello spirito giusto, per rendere eccezionale un’esperienza. Un regalo è un regalo anche quando non è incartato, ha ancora l’etichetta del prezzo e sta dentro un sacchetto di plastica. Allora perché lo confezioniamo? Perché la magia del dono sta in qualcosa di più del valore economico e funzionale di ciò che si dona. Gli abiti da concerto sono quello per me: un modo per mettere chi ascolta fuori dalla sua vita normale per un’ora o giù di lì.
E sempre sull’aspetto visivo, mi domando: cosa c’è di rivoluzionario nell’avere delle luci colorate sui musicisti? Non basta. Vuole essere uno spettacolo che si rivolge a più delle orecchie di un pubblico cieco? Allora vale la pena di spendere un pensiero sulla messa in scena, dei visual, qualunque cosa che aiutino a vedere ciò i musicisti voglio trasmettere al di là della nuda musica.
Poi non so, l’insistenza sui temi della società dell’immagine mi ha messo a disagio. Forse troppa insistenza, troppa semplificazione, quel che mi ha lasciato è l’idea di “musica classica per una società superficiale”.

Mi è piaciuto invece il filo rosso che legava i pezzi, il modo in cui l’idea della rivoluzione viene raccontata nella sua parabola attraverso brani differenti. 
Mi è piaciuto il parlare al pubblico, il fatto di raccontare a chi ascolta cos’è che sta per sentire, come nasce il pezzo. Tutte cose che per chi conosce la musica sono parte integrante del motivo per cui la si comprende e la si ama, ma di cui chi ci si accosta per le prime volte può non essere necessariamente a conoscenza.
Mi è piaciuto sentir suonare.

(Un’ultima cosa. Ma questa è per gli organizzatori: se inviti dei blogger o qualcuno da cui ti aspetti che utilizzi Twitter durante il concerto, ecco, allora avvisa le maschere.)

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