You, sexy thing

La lattuga di oggi #ortoinvaso #ortosulbalcone

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Questo post è per voi che avete appena suonato il clacson festosi sotto il mio balcone.
– La premessa numero uno è che fa caldo e che quando un uomo lavora la propria terra ha diritto di mettersi comodo. Per questo indossavo la mia candida canotta della salute.
– La premessa numero due è che è Spotify che sceglie le canzoni. Oggi avevo impostato una radio random Anni ’70, quindi non potevo sapere che dopo gli America, Steve Wonder, Paul Simon e via dicendo mi avrebbe regalato proprio quella canzone.
Cioè “You, sexy thing”, resa poi famosa dalla sountrack di “Full Monty”.
– Come potrete comprendere, il gesto di far roteare in aria la camicia, ballando e cantando, è venuto da sé.
“How did you know I needed you so badly?”

Momenti decisivi

Nella vita di ognuno di noi ci sono momenti decisivi, che non si dimenticano e che contribuiscono a fare di te un cittadino e un essere umano migliore. Essere genitore significa anche riconoscere l’importanza altamente educativa e simbolica di questi momenti e saperli rivivere con la propria prole.

Nel mio caso oggi, con la figlia 14enne.

Ok figliola: ora hai 14 anni. È il momento di diventare grandi @elioelst

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Quelli che vengono da lontano (a sentire noi)

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Venerdì notte, dopo il nostro concerto davanti al Teatro Fraschini, sarà stata mezzanotte passata.
Mi fermo a chiacchierare con Francesca e ci si avvicina un vecchietto che biascica qualcosa. Parla così male che proprio non capisco. Ha sottomano il libro “La mia prima volta con de Andrè”.

Ci spiega che sta cercando un taxi per andare in via Lebbroso, all’Hotel Cosengarten.
Lombroso e Rosengarden, ovviamente.
Gli diciamo che a piedi è lunga. Taxi non ce n’è. Gli dico: vabbè su, l’accompagno io, in auto sono tre minuti. [Intanto i miei strumenti erano ancora sul palco, ma vabbè, non c’era mica fretta].
Vado a prendere la macchina, lui sale, ci presentiamo e poi con un bellissimo accento napoletano mi fa.
“Che musicisti meravigliosi avete in questa città, ma lei li conosce quelli che hanno suonato all’inizio?”
Quindi capisco che non mi ha riconosciuto. Mi ripresento (“Ero il pianista”) e lui mi racconta la sua storia.
“Oggi mi sono alzato alle 5 del mattino e sono partito ma è lunga fin qui eh? Volevo vedere il concerto e anche la mostra. Sa, seguo de Andrè da 40 anni. Poi domani scendo a Genova, vedo un’altra mostra, poi faccio un salto a cimitero e infine me ne torno giù, a casa.”
Ecco, credo di aver conosciuto per caso, il nostro fan che veniva da più lontano.
Il signor Antonio, da Procida (Napoli).

Attendo una proposta indecente

Zio, ma quanto è grande il tuo balcone? Cosí. #ortoinvaso #ortosulbalcone

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Nel dormiveglia ho pensato che dovrei farmi sponsorizzare l’orto balcone da qualche produttore o garden center.
Un bello striscione di una decina di metri con una scritta tipo “L’orto balcone dello Zio utilizza i prodotti XYZ”.
Poi ovviamente temo che i miei condomini non sarebbero d’accordo.
Pensate che il condomino stronzo di turno ebbe pure da ridire, anni fa (quanti? tipo 12?), sulla bandiera della Pace.
E allora potrei mettere un semplice striscione senza fini commerciali con il motto “Un altro balcone è possibile”.
Firmato Subcomandante Horto.

La contesa delle tette (sì, quella di Nick Hornby, esatto)

Sono in stazione in coda per fare l’abbonamento. È quasi il mio turno. Una signora piccina coi i capelli bianchi affianca la coda, mi guarda. Poi mi si avvicina di lato sorridendo per dirmi qualcosa.
Fermo immagine. Flashback.
Io questa signora la conosco. E lei forse mi ha riconosciuto. Sta venendo a salutarmi.
È la stessa signora che diversi anni fa mi apriva la porta di casa salutando gentilmente. Io ricambiavo il saluto e raggiungevo la cameretta di sua figlia. Eravamo amichetti, morosi… dire fidanzati sarebbe troppo. Avevamo intorno ai 16 anni.
Cosa accadeva in quella stanza, ma soprattutto cosa non accadeva è facile immaginarlo.
Noi chiacchieravamo, ci raccontavamo gli affari di scuola, ascoltavamo De Gregori sul mangianastri e via dicendo. Ma soprattutto noi pensavamo alle sue tette. Entrambi. Io a come raggiungerle, lei a come proteggersi dall’attacco ogni minuto più imminente, atteso e temuto da entrambi, per ragioni opposte e parallele.
A un certo punto, in un punto del tempo a piacere tra i tuoi quattro assi, l’angolo retto di una stella e il collega spagnolo, lì partiva il limone duro. E le nostre rispettive armate si posizionavano sullo scacchiere. Una logorante guerra di posizione. Teatro degli eventi bellici, di volta in volta un maglione, una camicia, un vestito. Obiettivo unico, sempre identico. Quelle due meravigliose e inesplorate colline.
Se stai pensando che questa descrizione l’hai già vista o letta hai ragione.
È esattamente come la descrive Nick Hornby all’inizio di Alta Fedeltà. Oramai quando mi tornano in mente alcune storie, anche senza intenzione, le rivedo e le riscrivo con il filtro di quel libro.
Fine flash back, seguitemi, torniamo in stazione. In quella frazione di secondo in cui la signora sorride e si avvicina, io sono felice che mi abbia riconosciuto. L’ho incrociata diverse volte in questi anni, ma non mi ha mai salutato. O forse soltanto non mi ha mai visto e identificato. Quella morosa in fondo era durata un solo paio di mesi, spezzandomi adeguatamente il cuore (e la contesa per le colline si era chiusa in un sostanziale, dignitoso pareggio.).
Ora però la genitrice delle colline in fiore viene dritta verso di me. Le chiederò come sta sua figlia, la manderò a salutare, tenderò un piccolo filo verso il passato, senza intenzione, per il puro piacere della conservazione dei legami e dei ricordi.
E invece no.
– “Mi scusi, devo solo chiedere un’informazione. Posso passarle davanti? Ci metto un attimo.”
– “Sì, certamente signora, s’immagini…”

Il testamento del capitano in una notte che pioveva

Domenica a Pavia pioveva di brutto e siccome avevo promesso a Viola che l’avrei portata “uno di questi giorni” in città a mangiare una crepes alla nutella (sono la sua nuova passione), io speravo che mi dicesse una cosa tipo: “Piove troppo, dai, è lo stesso: ci andiamo un’altra volta.”
Lei invece ha detto solo: “Andiamo in macchina e portiamo due ombrelli. Sei pronto?”
Poi in auto lei, che in deroga (concessa da me) si è seduta davanti (causa pianoforte ingombrante sul sedile dietro) ha frugato nel portaoggetti della portiera e se ne è uscita con un cd di Canti degli Alpini – Il Coro della SAT, che non ricordavo nemmeno fosse finito lì.
Dopo 10 minuti di “Testamento del Capitano”, abbiamo parcheggiato, imbracciato gli ombrelli, abbandonato l’auto e il cd e per farci coraggio nel percorso ventoso e allagato tra viale Matteotti e p.zza Vittoria, abbiamo intonato “Era una notte che pioveva”. Lei si agganciava sicura alla melodia e io aggiungevo la quinta sotto. Eravamo perfetti. Mancavano solo un mulo, della polenta e un fiasco de vin.
Poi la canzone ha preso le nostre sembianze e ha iniziato a raccontare che “era un bel giorno che pioveva Viola voleva una crepes con nute-e-e-lla”. Per amor di lirica vi segnalo solo il pregevole verso con assonanza “Passiamo in auto in piazza Mine-erva, ma dietro ai vetri c’è un tempo di me-erda”.
E così a causa di un pianoforte lasciato in auto (invece di essere regolarmente scaricato in casa dopo un concerto), sono ritornate di moda le canzoni degli alpini. Almeno così sembrava.
Che tutto nascesse dal caso.
Poi oggi mi accorgo che è l’1 di marzo. Che è, sì certo, il giorno in cui se n’è andato Lucio Dalla ma anche il giorno in cui se n’è andato mio papà qualche anno prima. Che era, e qui si chiude il cerchio, la persona che mi ha insegnato quelle canzoni lì.
Tra l’altro oh, è un po’ che non lo vedo.
Sarà che ha imparato a non farsi beccare.
http://www.zioburp.net/2013/03/01/io-ti-vedo/

Come ho “conosciuto” Umberto Eco

Vabbè allora visto che oggi lo fate tutti, vi racconto anche io di come ho conosciuto Umberto Eco.
No, non ci siamo incontrati in treno, né sono andato a intervistarlo a casa sua, né siamo stati vicini di tenda in campeggio, né abbiamo condiviso focacce, panini, comitati centrali, pipe, né altro.
L’ho semplicemente conosciuto grazie a Luisa Carrada, sul suo Mestiere di Scrivere, sarà stato il 1997.
Sì, certo avevo già letto Il nome della Rosa (ma non avevo ancora provato a guardare il film con la figlia di 10 anni fermandomi pentito e imbarazzato alla realistica e animalesca scena di sesso di Adso).
Ma non avevo ancora conosciuto il semiologo e anzi ne avevo forse un po’ timore
Ebbene, sul sito di Luisa, che fu la mia bibbia e il mio romanzo di formazione in quell’anno in cui cercavo di capire cosa fare da grande e quanto il mio futuro potesse c’entrare tanto con la scrittura e poco con la laurea che chiusi subito in un cassetto, trovai i famosi 40 consigli su come SCRIVERE bene in italiano. Il tutto maiuscolo ha un motivo.
http://www.mestierediscrivere.com/articolo/eco2
Sì, si tratta di “scrivere”. Nulla a che vedere col “parlare”, anche se in questi giorni quelle 40 perle stanno uscendo dappertutto come “consigli di Eco per parlare bene l’italiano”.

E comunque onore al merito di Pennamontata che le ha prontamente ripubblicate in comodi visual
https://www.facebook.com/media/set/…
Ecco, qui consigli tra l’altro non sono nemmeno stati creati proprio da Eco. Di più. Meglio ancora. Sono stati raccolti e tradotti dalla tradizione dei business writer americani. Solo che, esattamente come negli “Esercizi di stile” che lui tradusse da Quenau, anche qui ci voleva un genio per tradurli in quel modo senza tradirli.
Ecco, quelle 40 scintille di ingegno, quelle 40 capriole, che riuscivano a condensare in una o due righe una regola e la sua dimostrazione, strappando a volte persino il sorriso, furono per me vero novizio (Zio Adzo inzomma), la prima dimostrazione che con la lingua si potevano far succedere cose meravigliose, giocandoci, piegandola, scrivendola.
Che la parola scritta fosse uno strumento straordinario e potente qualunque fosse la tua missione, professionale o personale: convincere, divertire, commuovere o innamorare.
Una lezione indimenticabile.
http://www.mestierediscrivere.com/articolo/eco2

Ciao Umberto

‘Sii coinciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinchè il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.’

Ciao Umberto. E grazie di tutte le parole.

“Apposto così, papà”

– Alice, ascolta, mi spiace per l’altra sera… Voglio dire… in pizzeria con i tuoi amici per il tuo compleanno (e i genitori ben confinati al tavolo più lontano), con quel pianobarista da strapazzo che stava trasformando la pizzeria in balera… Cioè io capisco che tu volessi “smerdare” (hai detto proprio così) quella ragazza che ha cantato Adele (mica male tra l’altro, secondo me era la figlia del pianista) ma poi quando siete venuti tutti da me, tu e i tuoi amici, a chiedermi che pezzo potevamo fare insieme io e te, insomma non ne abbiamo trovato subito uno pronti-via in cui fossimo abbastanza sicuri entrambi sia del testo che della musica, cioè io “One” l’avrei fatta ma tu non eri sicura di ricordarti il testo, tu volevi fare “Lucy in the sky” e io non ero sicuro di ricordarmi tutti gli accordi, ecco, ascolta la prossima volta ci prepariamo delle cose prima, le teniamo vive in repertorio e le rinfreschiamo ogni tanto ok? E quindi insomma mi spiace che tu non abbia cantato quella sera…
– No, papà ascolta. Non hai capito. Io non volevo cantare. Volevo solo che i miei amici me lo chiedessero e lo hanno fatto. Ma io non volevo cantare quella sera. Apposto così, papà.

Kellogg e le colazioni perdute


 

In collaborazione con Kellogg ho deciso di  scrivere un post sulla colazione e, grazie anche ai dati messi a disposizione da GFK, mi si sono aperti gli occhi sul tema colazione.  

Da questo punto di vista la mia non è proprio una famiglia modello… Certo, è vero, oggi è tutto così maledettamente veloce che non si ha il tempo di mettersi  a  fare colazione insieme in famiglia. Almeno nei giorni feriali. 

Però io ho fatto un passo indietro e ho provato a ricordare come erano le mie colazioni di bambino e ragazzo. Da questo punto di vista erano uguali a ora. Anzi forse peggio. Io non ho mai visto i miei genitori seduti con me a fare colazione. Il caffè l’avevano già bevuto prima di svegliare noi e farci trovare il the o il caffèlatte con pane e miele. Il sottofondo era quello della radio accesa.
In principio era la Rai (indimenticabile il segnale orario con l’uccellino e la mattina dell’8 dicembre ’80 con le tragiche notizie da NY), poi venne RadioPop dagli anni ’90 in avanti.
E poi si usciva tutti insieme alla stessa ora, in auto alle 7.50, a a scuola (tutti, i miei erano insegnanti) alle 8.10 al massimo. A questo punto sarei curioso di chiedere a mia mamma come fossero le sue colazioni da bambina… e non escludo di farlo…

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